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AVVOCATO DIRITTO PENALE
AVVOCATO ALESSANDRA SILVESTRI
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Foto di Lorenzo Scaccini

Delitti contro la persona

16/06/2016

Morte da amianto

Omicidio colposo commesso con violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro (art. 589, comma 2 c.p. in relazione, nel caso di specie, agli artt. 4, lett. b) e c), 15, 19, 21 D.P.R. 303/56, 4 lett c) D.P.R. 547/55).

L’ennesima vicenda giudiziaria connessa alle drammatiche conseguenze derivanti dall’esposizione nel luogo di lavoro alle fibre di amianto. L’accusa di omicidio colposo per omessa adozione da parte del datore di lavoro delle opportune misure di prevenzione atte a preservare l'integrità psico-fisica del dipendente.

Con una peculiarità rispetto alla casistica giurisprudenziale ricorrente, che ha contribuito a far sì che del procedimento di cui l’avvocato Silvestri, in qualità di difensore della parte civile, ha avuto modo di occuparsi, si desse notizia su quotidiani e riviste specializzate: la circostanza che il sig. Giuseppe Stranisci, deceduto nel 2012 per “mesotelioma pleurico destro sarcomatoide”, non facesse l’operaio in una delle grandi fabbriche della periferia, ma lavorasse in una piccola falegnameria sui Navigli.

Il 12 aprile 2016 la IX sezione penale del Tribunale di Milano ha così emesso la prima sentenza nei confronti del titolare di un laboratorio artigiano condannandolo alla pena di anni uno di reclusione ed al risarcimento dei danni patiti dalle parti civili costituite, stabilendo il versamento, a titolo di provvisionale immediatamente esecutiva della somma di circa 300.000 euro.

Numerose le questioni giuridiche e tecniche che -anche tramite l’ausilio di consulenti specializzati- sono state affrontate da questa difesa nell’ambito del procedimento in questione soprattutto, ma non solo, in relazione ai delicati aspetti relativi al nesso di causalità.

Si è in primo luogo provato come la persona offesa avesse lavorato per circa sei anni, tra il 1982 ed il 1989, nella società per conto della quale fabbricava manufatti di vario tipo mediante la lavorazione di strutture tubulari di cemento-amianto e come la patologia che aveva determinato il suo decesso fosse stata causata proprio dall’esposizione alle fibre di amianto.

Acclarato poi che negli 1982-1989 la scienza aveva già individuato un nesso di causalità tra l’esposizione a fibre di amianto e malattie come quella patita dalla persona offesa e ritenuta pacifica la sussistenza di una posizione di garanzia in capo all’imputato si è poi proceduto a dimostrare come lo stesso non avesse fornito al lavoratore un’adeguata informazione sul rischio specifico derivante dalla propria attività lavorativa nel laboratorio e comunque come non avesse portato a conoscenza di quest’ultimo i modi per prevenirlo.

Si è comprovato altresì come l’imputato avesse omesso di adottare i provvedimenti atti ad impedire lo sviluppo e la diffusione delle polveri e come non avesse fornito al lavoratore mezzi di protezione individuali (maschere, tute) o comunque non ne avesse esigito il loro continuo utilizzo.

E’ stata affrontata la tematica della soglia minima e, richiamata la corposa letteratura e giurisprudenza sul punto, si è poi proceduto ad escludere la ricorrenza nel caso di specie di eventuali fonti alternative.

Era dunque nel periodo in cui il sig. Stranisci aveva prestato la propria attività lavorativa presso la ditta dell’imputato che doveva essere rinvenuta la causa della malattia tragicamente insorta anche se, come solitamente accade, il mesotelioma pleurico si è manifestato dopo più di trent’anni. I segni clinici ad esso riferibili sono infatti comparsi solo nell’aprile del 2012 mentre la diagnosi di certezza è stata posta con referto del maggio dello stesso anno, lasciando al sig. Stranisci appena sei mesi di vita.

Il periodo di latenza, che come è noto, definisce il lasso temporale intercorrente tra l’inizio dell’esposizione e la comparsa dei segni clinici che portano alla diagnosi della patologia tumorale è stato dunque stimato nel caso di specie in circa 30 anni. Tale dato peraltro non deve stupire essendo pienamente compatibile con le misure temporali presenti in letteratura per patologie di questo tipo.




Articolo Giornalistico Il Giorno
07/06/2016

Derubricazione del reato da omicidio volontario in omicidio colposo ed immediata scarcerazione per la donna lituana accusata di aver ucciso nell’aprile del 2015 il proprio compagno con una coltellata al petto.

Un successo professionale ed una grande gratificazione dal punto di vista umano per il noto caso della donna lituana Oksana Murasova, accusata di aver ucciso con una coltellata al torace il convivente Ruslan Bilous, nell’appartamento di via Ripamonti il 3 aprile del 2015.

Con sentenza del 27 maggio 2016 la Corte d’Assise di Milano ha infatti condannato l’assistita dell’avvocato Silvestri e dell’avvocato Nicolò ad una pena di due anni e otto mesi di reclusione, ridimensionando nettamente la richiesta del Pm il quale aveva chiesto che l’imputata venisse condannata a ventiquattro anni di reclusione, contestando peraltro in limine l’aggravante dell’abuso di coabitazione di cui all’art. 61 n. 11) c.p., la cui dubbia applicabilità nel caso di specie è stata prontamente rappresentata dalla difesa.

La Corte ha dunque disatteso le ricostruzioni della Procura optando per la derubricazione dell’accusa di omicidio volontario ex art. 575 c.p. in omicidio colposo con eccesso colposo di legittima difesa, derubricazione resa possibile solo grazie al notevole apporto investigativo ed all’impegno professionale profuso dai legali della sig.ra Murasova.

Numerose sono state infatti le attività di indagini difensive espletate nel procedimento de quo da questi ultimi, che hanno a tal fine conferito mandato a professionisti di vari settori affinché procedessero all’acquisizione di prove scientifiche, svolgessero consulenze medico legali e accertamenti tecnici senza dei quali la verità avrebbe faticato ad emergere processualmente.

Assai esplicativa la circostanza che uno degli elementi che, in base all’ordinanza applicativa della misura coercitiva della custodia in carcere, hanno sin dal principio contribuito a rendere poco credibile per l’Autorità Giudiziaria la versione della sig.ra Murasova, è stato quello della profondità della ferita inferta alla vittima: si riteneva, infatti, che la penetrazione del coltello nel petto di quest’ultima per ben 10 cm fosse assolutamente incompatibile con la completa assenza di un intento omicidiario rappresentata dall’imputata.

I consulenti della difesa hanno invece dimostrato come il coltello abbia affondato la lama solo per due, al massimo tre centimetri, consentendo così di ravvisare una forza compatibile anche con un semplice gesto di difesa o con un evento accidentale.

Il primo grado di giudizio si è concluso anche con la disposizione dell’immediata scarcerazione della sig.ra Murasova, detenuta da oltre un anno all'Icam, l'istituto a custodia attenuata per le detenute con figli piccoli. I Giudici, infatti, condividendo quanto prospettato dai difensori, hanno ritenuto che fossero completamente venute meno le esigenze cautelari poste a sostegno dell’ordinanza. 




Articolo giornalistico Corriere.it Articolo giornalistico Repubblica.it
11/05/2015

Lesioni e molestie in contesto scolastico: il risarcimento del danno

Lesioni e molestie (artt. 582, 660 c.p.); Costituzione di parte civile e risarcimento del danno

Lo Studio ha rappresentato in giudizio due alunne di un Istituto superiore di Pavia, che - ancora minorenni, all'epoca dei fatti - avevano subìto molestie e minacce verbali a chiaro sfondo sessuale (peraltro sfociate persino in un episodio di aggressione fisica, a sua volta all'origine di un procedimento davanti al Giudice di Pace per il reato di cui all'art. 582 cpv.) da parte di un operatore scolastico dell’Istituto in parola, evidentemente mosso - come emerge in atti - da tutt'altro che nobili (in un contesto votato all'educazione dei giovani) ragioni di sopraffazione psicologica e di disturbo della sfera personale degli alunni.

Riconosciuta la penale responsabilità dell’uomo e il risarcimento spettante alle giovani, costituitesi parti civili con i propri genitori, lo Studio ha dovuto procedere a pignoramento presso l’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale (INPS) al fine di soddisfare le legittime pretese risarcitorie - che altrimenti sarebbero state vanificate - delle proprie assistite.

Dopo la condanna, l’uomo non aveva infatti in alcun modo adempiuto agli oneri derivanti dalla condanna e si è reso a tal fine necessario procedere a pignoramento parziale delle somme a quest’ultimo erogate a titolo di pensione di anzianità.

Pur nei limiti della vicenda trattata - peraltro emblematica di episodi deprecabili all'interno di istituzioni educative - questa Difesa ha tenacemente perseguito il soddisfacimento delle ragioni delle proprie assistite.




Sentenza Trib. Pavia
28/04/2015

Diffamazione a mezzo stampa e limiti al diritto di cronaca

Diffamazione aggravata (artt. 595, 596 c.p.); Reati commessi col mezzo della stampa periodica (artt. 57, 51 c.p.); Riforma dei delitti di ingiuria e diffamazione

Il caso di seguito descritto, ampiamente assurto alle cronache giornalistiche, ha ad oggetto la tragica morte di una liceale, a sua volta oggetto di una deformazione giornalistica che integra, ad oggi, la fattispecie di reato di cui agli artt. 595 e 596 c.p. (Diffamazione e diffamazione a mezzo stampa). Tale fattispecie di reato – da anni oggetto di ripensamento legislativo – rappresenta oggi una materia di particolare interesse giuridico.

La vicenda ha dato vita a due distinti procedimenti presso il Tribunale di Roma e di Cuneo, che vedono come parti offese i congiunti della giovane, assistiti appunto dallo Studio.

Un quotidiano anche nella versione on line ("Il Fatto quotidiano", 27 maggio e poi ancora 28 agosto 2013) e poi una testata giornalistica televisiva ("Studio aperto") diffondevano infatti il sospetto, tanto inquietante quanto infondato, che la morte della ragazza e di un'altra coetanea fossero da ricollegarsi alla presenza, nella zona, di una setta di ispirazione satanista (e alle presunte affiliazioni di giovani della zona, tra cui la defunta) e alla presenza di un docente accusato di molestie nei confronti di proprie alunne.

Il nome della ragazza, del tutto estranea a tali frequentazioni, era infatti stato impropriamente menzionato dai giornalisti, associandolo a scenari surreali: del tutto falsi erano però i pretesi collegamenti tra la giovane e gli ambienti descritti dai giornalisti. Il problema riguarda pertanto i limiti del diritto di cronaca e della professione giornalistica, oggi al centro di profonda revisione quanto a statuto e obiettivi, e, viceversa, la sussistenza di condotte illecite estese (per effetto dell’art. 57 c.p.) anche al direttore della testata, con l’eventuale ma controversa possibilità di riconoscere la scriminante prevista all’art. 51 c.p.

Lo Studio ha cercato di porre all’attenzione della Pubblica Accusa come il reato di diffamazione – e di diffamazione a mezzo stampa – rappresenti all’interno del nostro sistema di diritto penale uno spigolo vivo, particolarmente dibattuto sia sul fronte delle condotte astrattamente punibili che delle sanzioni previste, proprio in forza dei convergenti interessi di rango costituzionale che in esso si apprezzano. Anzitutto la Difesa ha posto in luce come il recente disegno di legge in materia di diffamazione, in riforma dell’art. 1 l. 47/1948, estenda l’ambito operativo della fattispecie alle testate on line. A ciò si ricollega così l’altro aspetto, pure segnalato dalla Difesa, relativo al cd. diritto all’oblio e quindi, nel caso in oggetto, alla tutela della memoria e dell’onorabilità della defunta e della sua famiglia. Nel caso in oggetto lo Studio sta cercando di dimostrare, attraverso un accurato lavoro di ricostruzione degli approdi interpretativi della giurisprudenza, come la condotta dei giornalisti abbia violato i limiti sottesi all’esercizio di cronaca, protendendosi – punto, questo, di particolare gravità – anche in prodotti di informazione on line, e dando per questo tramite adito a una violazione della libertà morale.

Un punto particolarmente controverso è rappresentato dalle edizioni on line di quotidiani e periodici: nel caso di specie – paradigmatico da tale punto di vista – si tratta infatti di canali di diffusione che, pur formalmente assoggettati alla disciplina normativa, non di rado mostrano registri stilistici del tutto inadeguati e controlli assai superficiali circa la veridicità delle informazioni riportate. Le argomentazioni difensive sono ad oggi rivolte proprio a segnalare l’urgenza di controlli più severi, alla luce del dramma vissuto dai propri assistiti ma soprattutto di una rilettura serena e aggiornata della disciplina in tema di diffamazione.




22/04/2015

Valutazione delle dichiarazioni della persona offesa in un’ipotesi di tentata violenza sessuale e configurabilità del tentativo di reato

Rapina e tentata violenza sessuale (artt. 628; 56, 609-bis, 609-ter c.p.)

In un presunto caso di rapina e di tentata violenza sessuale a danno di una minorenne, esaminato dal Tribunale di Vigevano, l’imputato è stato assolto in quanto i fatti non sussistevano.

Per dimostrare la debolezza dell’impianto accusatorio, questa Difesa ha rivolto l’attenzione verso le numerose incongruenze emerse nei fatti narrati. L’audizione protetta della minore nelle forme dell’incidente probatorio, le contraddizioni emerse nelle dichiarazioni della querelante stessa e nelle sommarie informazioni raccolte, la ricognizione e le testimonianze prodotte in giudizio, la consulenza psicologica circa la personalità dell’imputato allegata hanno dimostrato l’estraneità dell’uomo rispetto alle imputazioni e, più in generale, l’insussistenza dell’episodio di cui ai capi di imputazione.

La perizia psicologica prodotta da questa Difesa ha avuto un ruolo determinante per la valutazione della capacità a delinquere dell’imputato, nonché per la verifica dell’attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa. Dal punto di vista della fattispecie di reato dedotta in giudizio, questi elementi risultano inoltre ancor più problematici se messi in relazione con la configurabilità dei reati di cui agli artt. 628, nonché 609-bis e 609-ter nella forma del tentativo.

Proprio in relazione al supposto tentativo di violenza sessuale, si è posto un cruciale problema di valutazione della testimonianza della persona offesa e della veridicità delle relative dichiarazioni: problema, questo, che, data anche la minore età della presunta vittima, ha richiesto un’attenta riflessione, conducendo però a una pronuncia assolutoria. Risolutive, da parte di questa Difesa, sono state sia la consulenza psicologica prodotta che l’analisi della fattispecie di reato.

Come mostra la sentenza in allegato, le fonti di prova hanno svelato in modo decisivo la debolezza dell’impianto accusatorio, come riconosciuto poi in fase di conclusioni anche dal Pubblico Ministero.

L’audizione della minore in incidente probatorio ha infatti lasciato emergere molteplici contraddizioni nella narrazione di quest’ultima e, grazie al contributo del consulente della Difesa, ha fornito al Giudicante elementi di valutazione a favore dell’imputato.




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