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AVVOCATO DIRITTO PENALE
AVVOCATO ALESSANDRA SILVESTRI
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Foto di Lorenzo Scaccini

Stupefacenti

20/04/2015

Narcotraffico e omicidio

Stupefacenti (D.P.R. 309/1990); Omicidio (artt. 575, 577 c.p.); Collaboratori di giustizia (art. 58-ter, l. 354/1975); Reato continuato (art. 81 c.p.); Legittimità costituzionale dell’art. 275 co. 3 c.p.p. (Misure cautelari)

Lo Studio ha seguito un caso particolarmente complesso relativo a un gruppo criminale di etnia cinese, dedito a traffico di sostanze stupefacenti e a condotte di allarmante violenza, sfociate anche nell’uccisione di un affiliato, all’interno di una guerra tra gruppi rivali per il controllo del mercato della droga.

Per uno degli imputati, difeso dallo Studio, il Tribunale di Milano ha riconosciutoed è stata la prima volta in Italia nell’ambito della comunità cineseuna cruciale condotta di collaborazione, anche ai sensi dell’art. 58-ter O.P. (l. 26 luglio 1975, nr. 354): la scelta collaborativa dell’imputato ha infatti permesso di operare una compiuta ricostruzione dei rapporti all’interno del gruppo criminale e di ottenere sicure condanne per i membri di quest’ultimo.

L’impegno difensivo si è sviluppato nel sostenere sì l’esistenza di un medesimo disegno criminoso, ma al contempo – sotto il profilo della quantificazione della pena – di contenere il pur necessario aumento in continuazione proprio in ragione della condotta di collaborazione (senz’altro meritevole – come ha riconosciuto anche la sentenza – di valorizzazione sul piano sanzionatorio) dell’imputato, e di ottenere per quest’ultimo un ulteriore significativo sconto di pena.

Alla luce di tali elementi, questa Difesa formulava altresì al Giudice per le indagini preliminari richiesta di sostituzione della misura cautelare – per il reato di omicidio ex art. 575 c.p. – a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 275 co. 3 c.p.p., secondo e terzo periodo, come modificato dal cd. “pacchetto sicurezza” del 2009 (art. 2, d.l. 23 febbraio 2009, nr. 11, come convertito dalla l. 23 aprile 2009, nr. 38). Con la sentenza nr. 265/2010, la Corte costituzionale aveva infatti sancito l’illegittimità della novella per i reati ex artt. 600, 609-bis e -quater, con ciò cassando la novità della “carcerazione obbligatoria” e la conseguente presunzione assoluta di inadeguatezza di misure cautelari alternative, dettata dal testo novellato. L’illegittimità costituzionale della norma (rispetto agli artt. 3, 13 e 27 Cost.) deriva dal fatto che essa stabilisca una presunzione assoluta (laddove soltanto una presunzione relativa sarebbe stata costituzionalmente conforme) per i reati richiamati, introducendo così una deroga a quel principio del «minimo sacrificio necessario» (Corte cost., sent. nr. 295/2005) che rappresenta invece l’architrave del sistema delle misure cautelari.

La richiesta formulata dalla Difesa proponeva quindi – in conseguenza dell’interpretazione dettata dalla Corte – la sostituzione della misura inizialmente disposta con quella degli arresti domiciliari, ipotizzando inoltre questione di legittimità costituzionale per la norma in oggetto. Ad avviso della Difesa, il contegno collaborativo del soggetto, già condannato in primo grado, meritava completa valorizzazione e pertanto la misura cautelare degli arresti domiciliari avrebbe costituito «una forma di custodia tale da “proteggere” l’incolumità del richiedente per mezzo dei controlli di P.G. pur mantenendo lo stesso nel proprio alveo familiare». La richiesta cosìformulata era accolta dal Giudice, che – riconoscendo la fondatezza e la rilevanza delle questioni – sospendeva il giudizio per la remissione degli atti alla Corte costituzionale.

La sentenza susseguente della Corte costituzionale (nr. 164/2011, Pres. Maddalena, Rel. Frigo) dichiarava l’illegittimità costituzionale della norma novellata, in relazione all’art. 575 c.p.: a giudizio della Corte, «né il primario rilievo dell’interesse protetto dalla fattispecie incriminatrice, né esigenze di contenimento di eventuali situazioni di allarme sociale possono per altro verso valere, di per sé, come base di legittimazione della predetta presunzione assoluta. Di qui, dunque, l’esigenza costituzionale di trasformarla in presunzione solo relativa» (cfr. oggi anche, pur con differenti argomentazioni, la sent. nr. 48/2015).

Ha dunque trovato accoglimento l’istanza della Difesa relativa a un più equo bilanciamento tra scelta della misura ed esame complessivo della concreta vicenda, tale da non assumere carattere afflittivo e quindi costituzionalmente non compatibile.




Corte costituzionale, sent. nr. 164/2011 "Il Sole 24 ore", 13 maggio 2011 Richiesta di sostituzione della misura cautelare e ordinanza del Giudice per l'Udienza preliminare
01/09/2014

Narcotraffico e dipendenza psicologica da consumo di stupefacenti: possibile l’affidamento terapeutico

Lo Studio ha ottenuto, per una propria assistita, una importante pronuncia da parte della Corte di Cassazione, che ha accolto il ricorso presentato, estendendo – come auspicato dalla Difesa – la disciplina dell’affidamento in apposite strutture di cura a casi di dipendenza psicologica (non più, come sinora avvenuto, soltanto fisica) da consumo e assuefazione a sostanze stupefacenti. Il ricorso era infatti finalizzato a ottenere la scarcerazione della donna e l’accesso all’affidamento terapeutico.

Come ha riconosciuto anche il Procuratore Generale presso la Suprema Corte, per i criteri di concessione del beneficio veniva infatti in precedenza operata un’indebita esclusione di situazioni patologiche. Si trattava cioè di un’«erronea limitazione dell’affidamento ai soli casi di dipendenza fisica dagli stupefacenti, escludendo la necessità di prevenire il pericolo di una ricaduta nell’uso della droga» (vd. articolo allegato). Nel ricorso la Difesa ha argomentato che proprio in presenza di situazioni di assuefazione e sofferenza psicologica (nel caso di specie, per il consumo di cocaina), ancor più gravi delle semplici “crisi d’astinenza”, deve essere riconosciuta la possibilità di ricorrere al beneficio dell’affidamento, al fine di mitigare reazioni psicotiche e limitare il più possibile le forme di assuefazione psichica a sostanze psicotrope.

La pronuncia della Suprema Corte, tempestivamente recepita dal Tribunale di Sorveglianza di Milano (il cui precedente diniego aveva dato luogo appunto all’impugnazione di questa Difesa), ha permesso così la scarcerazione della donna e il suo affidamento a una comunità, sì da realizzare con piena coerenza quella funzione rieducativa della pena che la Carta fondamentale pone come pilastro del sistema punitivo dello Stato.




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