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AVVOCATO DIRITTO PENALE
AVVOCATO ALESSANDRA SILVESTRI
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Foto di Lorenzo Scaccini

Delitti contro il patrimonio

27/06/2016

Da vittima di usura assoggettata al metodo mafioso a presunto compartecipe dell’attività delittuosa dei propri usurai: un caso dai confini ancora tutti da definire.

Impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita (648 ter c.p.); estorsione (art. 629 c.p.); aggravante cd.“del metodo mafioso” (art. 7, D.L. n. 152/1991, conv. in L. n. 203/1991).

Quello di cui lo Studio sta avendo modo di occuparsi è noto alle cronache giornalistiche come il caso della “Banca della camorra”. Esso vede come principali protagonisti due noti personaggi di spicco della camorra che operano da tempo in territorio lombardo con le loro attività illecite e che sono già stati processati per altri fatti delittuosi.

Ad essi sono stati contestati nel procedimento in oggetto i delitti di usura ed estorsione.

L’avvocato Silvestri si occupa però di assistere un loro coimputato, il sig. Montefusco, che assume nelle vicende sottoposte al vaglio della Procura un ruolo del tutto differente da quello rivestito dai primi.

Le stesse testate giornalistiche che hanno dato risonanza alla notizia dell’emissione nei suoi confronti dell’ordinanza che, nel febbraio 2016, ha disposto la custodia cautelare in carcere, si sono riferite a lui scrivendo di “un ex debitore e vittima di usura” che avrebbe, a partire da un determinato momento, coadiuvato i soggetti sopra menzionati nelle attività di riscossione degli interessi usurari, intimidendo con metodo mafioso altri imprenditori estorti.

Estorsione ed impiego di denaro di provenienza illecita dunque i reati a lui contestati, perché secondo l’Autorità Giudiziaria, oltre che porre in essere condotte di costrizione e di minaccia finalizzate ad ottenere la restituzione dei prestiti usurari, avrebbe consentito agli esponenti della camorra sopra menzionati di impiegare in attività economiche i proventi dei fatti delittuosi da essi commessi.

La situazione processuale del sig. Montefusco è però ben più delicata di quella che è stata rappresentata dai giornali ed i contorni con cui essa è stata definita dall’Autorità Giudiziaria sono tutt’altro che netti.

Nel corso dell’udienza fissata per il prossimo 14 luglio 2016 per deliberare sulla richiesta di abbreviato formulata da questa difesa, quest’ultima cercherà pertanto di far emergere tutti i profili della vicenda atti a dimostrare come le qualificazioni giuridiche dei fatti operate dalla Procura prima e dal Tribunale di Milano poi debbano essere rivisitate, anche e soprattutto alla luce dell’impossibilità di trascurare la forte peculiarità ricorrente nel caso di specie: e cioè che lo stesso Montefusco fosse vittima del cd. “metodo mafioso”, che inducendolo nel più totale panico lo portava ad assumere contegni criticabili ma comunque ben lontani dall’essere connotati in termini tali da integrare l’aggravante ad effetto speciale (art. 7, D.L. n. 152/1991) ed i reati contestati. 




Articolo giornalistico Corriere della Sera
20/04/2015

Quote latte

Peculato e truffa (artt. 314, 640 c.p.); Responsabilità amministrativa da reato delle persone giuridiche (d. lgs. 231/2001); Principio di specialità; Rapporto tra tutela amministrativa e tutela penale (l. 689/1981; d. lgs. 231/2001)

In un caso che ha avuto vasta risonanza nelle cronache giornalistiche, la Suprema Corte di Cassazione (Sezione Sesta Penale) ha accolto i ricorsi presentati dalle Difese e – annullando senza rinvio la sentenza impugnata nonchè quella emessa in primo grado dal Tribunale di Milano – ha perciò assolto gli imputati dai reati loro contestati, dimostrando l’insussistenza dei fatti così come ritenuti nei precedenti gradi di giudizio. Molteplici sono gli aspetti giuridici che la vicenda porta con sé.

Secondo i Giudici di merito, le irregolarità nel pagamento del cd. “prelievo supplementare” per le quote di latte prodotto, superiori a quelle consentite a ciascun singolo allevatore, avrebbero integrato le fattispecie di peculato e di truffa aggravata. Attraverso una dimostrazione stringente, la sentenza (vd. allegato) della Suprema Corte – confutando la ricostruzione delle argomentazioni dei giudici milanesi di primo e secondo grado – analizza molteplici aspetti: anzitutto afferma come il cd. “primo acquirente” (così definito dal d.l. 49/2003, convertito con modifiche nella l. 119/2003) non rivestisse la qualifica soggettiva di incaricato di pubblico servizio e non potesse pertanto dirsi integrato il reato di peculato di cui all’art. 314 c.p. (tanto per l’aspetto soggettivo dell’eventuale agente, quanto anche sul versante oggettivo per la condotta di appropriazione indebita).

Ribaltando le argomentazioni delle sentenze di Tribunale e Corte d’Appello, la S.C. esclude la sussistenza del reato di peculato anche per l’impossibilità di configurare una condotta di impossessamento e detenzione di denaro pubblico, nonché per l’erronea attribuzione della qualità di “denaro pubblico” alle somme in oggetto. Per quest’ultimo aspetto – in particolare – la S.C. confuta le argomentazioni della Corte d’Appello: la condotta in esame non integra, ad avviso della S.C., detenzione di denaro pubblico, bensì obbligazione pecuniaria, come chiaramente indica la «possibilità di sostituire il versamento immediato del “prelievo supplementare” con una fideiussione» ai sensi dell’art. 5 del citato decreto (p. 28 della sentenza).

Alla disamina relativa a tale reato si ricollega anche l’inciso relativo al principio di specialità, che la S.C. – ancora correggendo i Giudici di merito – ha ritenuto applicabile: la previsione di una violazione amministrativa speciale (nel decreto quote latte) impedisce a fortiori la configurabilità di omologhe fattispecie penali (i.e. peculato, appropriazione indebita).

Qui la sentenza apre peraltro uno spaccato sulla più recente giurisprudenza della Corte EDU (caso Grande Stevens c. Italia, 4.3.2014) e su quella, coeva, delle Sezioni Unite (il riferimento è al caso Gubert, sent. nr. 10561/2014) e sancisce l’operare del principio del ne bis in idem in materia penale che, nel caso che qui interessa, impedisce sul versante sostanziale la punizione per il medesimo fatto, già oggetto di previsione in sede amministrativa attraverso le sanzioni pecuniarie (che qui riguardano anche, per le persone giuridiche, gli illeciti amministrativi dipendenti da reato di cui all’art. 24, d. lgs. 231/2001), in ambito penale. Si tratta infatti – argomenta la S.C. – del medesimo fatto: «la violazione amministrativa del decreto quote latte è commessa dal primo acquirente che non versa il prelievo supplementare; il reato sarebbe commesso dal medesimo, primo acquirente, cui si riconosce la natura di incaricato di pubblico servizi, per aver trattenuto il prelievo supplementare» (p. 30 della sentenza).

Quanto alla condotta di truffa, la Corte – aderendo ai rilievi delle Difese – ha sancito l’assenza degli elementi caratterizzanti e costitutivi del reato contestato, con riferimento alla predisposizione di schemi contrattuali intersocietari che si assumevano illeciti. In particolare è stata rilevata – accogliendo gli argomenti addotti da questa Difesa – l’assenza tanto del requisito della disposizione patrimoniale, quanto dell’elemento soggettivo del dolo: in capo agli imputati, infatti, era mancata qualsiasi intenzione di raggiro o inganno, in quanto questi «avevano fatto degli omessi versamenti un motivo politico di contestazione, essendo quindi nota a tutte le parti interessate» (pp. 10-11 della sentenza allegata).

 




Sentenza Cassazione
30/04/2014

Truffa in attività di intermediazione assicurativa

Truffa (art. 640 c.p.); Appropriazione indebita (art. 646 c.p.);Trattamento illecito dei dati personali (art. 167, d. lgs. 196/2003); Esercizio abusivo dell’attività di intermediazione assicurativa (art. 305, d. lgs. 209/2005)

 

Lo Studio ha rappresentato in giudizio un agente assicurativo, imputato di condotte illecite perpetrate, in costanza di rapporto, a danno di una Società assicurativa per la quale operava e, per questo tramite, anche a taluni privati titolari di polizze erogate dalla stessa. La Società, costituitasi parte civile, presentava appello contro la sentenza di prime cure – che, con dovizia di argomenti e al seguito di un’estesa istruttoria, aveva assolto l’imputato da tutti i capi di imputazione – chiedendo la riforma della pronuncia nonché la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale. Depositava altresì atto d’appello il Procuratore Generale, con integrale condivisione delle argomentazioni spese dalla P.C. e rinvio alle medesime.

Questa Difesa depositava a sua volta una corposa memoria difensiva nell’interesse dell’imputato, al fine di illuminare gli aspetti giuridici più rilevanti per le singole fattispecie di reato e di ripercorrere l’estesa istruttoria dibattimentale, nonché, per tale via, di dimostrare l’assenza di una penale responsabilità dell’imputato. Sulla scorta della più avvertita giurisprudenza di legittimità, la Difesa ipotizzava altresì l’inammissibilità dell’atto di impugnazione formulato dal P.G., in quanto articolato meramente per relationem rispetto a quello della P.C. e neppure notificato all’imputato e al suo difensore. Peraltro lo stesso P.G.  rinunciava frattanto all’atto così vergato (cfr. pag. 12 della sentenza allegata).

La sentenza d’appello – concludendo per la conferma dell’assoluzione e per la condanna al pagamento delle spese processuali ex artt. 472 e 542 c.p.p., come richiesto dalla Difesa – mostra di aderire alle istanze difensive con una compiuta articolazione. Viene anzitutto reietto, perché infondato, l’appello proposto dalla P.C.; trova poi consenso anche la censura relativa all’inammissibilità dell’appello del P.G. (pur avendovi la Pubblica Accusa già autonomamente rinunciato).

Anche il rilievo – sollevato da questa Difesa – circa la carenza di interesse processuale da parte della Società assicuratrice, né parte offesa né danneggiata, ha trovato decisivo accoglimento in sentenza: come ampiamente sostenuto nella memoria difensiva, l’accanimento accusatorio della querelante non ha trovato alcun riscontro causale tra il preteso danno di immagine, da questa lamentato, e l’altrettanto pretesa condotta ascritta all’imputato (ciò risulta di particolare evidenza per l’ipotizzato reato di appropriazione indebita). Il nucleo accusatorio era infatti rappresentato – da parte della Società – dall’ipotetica violazione di un patto di non concorrenza da parte dell’imputato: qui in particolare la Difesa ha posto in luce, con solide argomentazioni, come il proprio assistito non avesse posto in essere né condotte di rilievo penale, né iniziative anticoncorrenziali, anche con riguardo al Codice delle Assicurazioni e al Registro IVASS (ex ISVAP) previsto al suo interno.

Nel processo in oggetto la Difesa ha quindi operato – cruciale, in tal senso, il memorandum allegato – un’attenta dissezione dei capi di imputazione, offrendo in modo sinergico una lucida interpretazione delle risultanze dibattimentali e dei molteplici aspetti giuridici ivi richiamati. In particolare la sentenza ha riconosciuto come non fosse in alcun modo possibile apprezzare in capo all’imputato alcun contributo causale al preteso «nocumento» patito dalla Società, risultandone pertanto assente un requisito centrale della complessa fattispecie delittuosa in oggetto (requisito che copiosa giurisprudenza di legittimità, ampiamente dibattuta nel testo difensivo e poi in sentenza, vorrebbe qualificato come condizione obiettiva di punibilità, ma sulla natura del quale la Difesa propone diverse e perspicue interpretazioni). Una disamina di particolare efficacia – anche per la decisione espressa in sentenza – si è resa necessaria a proposito del contestato trattamento illecito dei dati personali. Del pari – con riferimento ad es. alla diffamazione aggravata – emergevano problemi peculiari relativi alla legittimazione e, in subordine, alla procedibilità (già il Giudice di primo grado aveva concluso non doversi procedere, per assenza di querela, per il capo di cui all’art. 640 c.p.): in capo ai diffamati e non alla Società, che proseguiva a lamentare di riflesso il danno subìto. La sentenza aderisce pienamente a tale ricostruzione (si vd. in part. le pagg. 8-9 in allegato), peraltro offerta sia dalla Difesa che dal Giudice di prime cure.

Il riferimento a normativa settoriale – quella dell’intermediazione assicurativa – ha richiesto infine un impegno peculiare, sia sul versante di una corretta contestualizzazione dei testi richiamati, sia della produzione di una specifica consulenza, con particolare riguardo alla natura dell’iscrizione nel Registro IVASS ex art. 109 Cod. Ass. e alle negligenze contestate all’imputato, sulla base di erronea interpretazione degli aspetti giuridici conseguenti. Dall’interpretazione della norma è così pacificamente discesa l’insussistenza dell’addebito relativo all’illecito esercizio dell’attività.




Sentenza Corte d'Appello Milano-Sez. Quarta Penale
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